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CHAKUNG - NIENTE VETTA X ENRICO BONINO & NICOLAS MELI

Veronica Balocco
28/12/2010

LA SPEDIZIONE AL CHAKUNG, NEL KHUMBU NEPALESE, DI ENRICO BONINO E NICOLAS MELI SI È CONCLUSA NEI GIORNI SCORSI CON IL RITORNO IN VAL D'AOSTA DELLE DUE GIOVANI GUIDE ALPINE

Non è la cima, ma una grande e importante lezione di vita e di alpinismo, ricca di importanti riflessioni sul modo di vivere questa disciplina, quella che i due si sono portati a casa...

"In Himalaya ci siamo resi conto che, anche per tentare i "non 8000", non bastano le capacità tecniche e l'esperienza acquisita nelle Alpi. E' un gioco tutto nuovo da imparare, dove contano molto l'esperienza locale e la strategia". C'è un misto di onestà e modestia nelle parole che la guida alpina valdostana Enrico Bonino, 29 anni, ha scelto per raccontare l'esito della spedizione che nelle scorse settimane l'ha visto protagonista, insieme al collega Nicolas Meli, 31, sulle montagne del Khumbu nepalese. I due, partiti dall'Italia il 16 novembre con l'obiettivo di salire il Chakung, 7.036mt, per una via nuova e in rigorosissimo stile alpino, sono tornati a casa in questi giorni con qualcosa di più grande di una cima. "Questo nostro non raggiungere la vetta ci ha portato grande esperienza della quale faremo tesoro per le spedizioni future", ha raccontato Bonino.

E' stata dunque una lezione, e non solo di alpinismo, per i due. Il perché lo racconta Enrico Bonino stesso, in questa lunga relazione (riportata integralmente e senza variazioni) che trasuda non solo comprensibile delusione, ma anche coraggio e una rara schiettezza.

"Quest'anno siamo partiti con l'idea di salire il Chakung, montagna di 7.000m che già avevamo adocchiato lo scorso anno. Come ulteriore obiettivo avevamo quello di raggiungere la vetta salendo una via nuova lungo la parete ovest, in autonomia e in rigoroso stile alpino. Ma

ahimè, le spedizioni costano molti soldi e allora abbiamo deciso di portarci appresso una cliente durante la salita di acclimatamento, chiaramente rivisitata per adeguarla alle capacità della ragazza.

Partiamo quindi da Kathmandu e con la ragazza, Marine, ci acclimatiamo a dovere fino ad arrivare al campo base del Nireka, vetta di 6.200m nascosta dietro il Cho La Col. Li ultimiamo i preparativi, facciamo scuola di ghiaccio, "addobbiamo" il ghiacciaio come un parco giochi perché Marine possa impratichirsi con tutte le manovre di corda, quindi decidiamo di partire per la vetta. Marine ha già dato segni di debolezza il giorno prima del tentativo, ma quella mattina il solo allacciarsi gli scarponi le dà problemi a respirare e di affaticamento. E' ovvio che dopo pochi passi tornerà indietro, e così è.

Per Nik e me, però, è estremamente importante portare a termine la salita in vista dell'obiettivo principale. Quindi, dopo aver riaccompagnato Marine alla tenda, consapevoli che necessita solo di un po' di riposo, in sole 3h 30' raggiungiamo la vetta del Nireka per la cresta SW, lunga 900m. Scendiamo poi a Gokyo tutti insieme, e come da programma ci dividiamo: Marine termina il trek con la "guida" Sherku, e noi due rimaniamo a Gokyo a riposarci un paio di giorni prima di partire alla volta del Chakung.

Una prima ricognizione al 5° lago di Gokyo ci mostra subito che le due linee di salita individuate in precedenza sulla parete non sono in condizioni ottimali: una presenta delle pericolose placche a vento in alto, e l'altra, troppo secca in basso, scarica pietre durante il giorno. Ci rimane comunque l'opzione di seguire la linea salita nel 2003 dai coreani, una via che pare in buone condizioni. Però il piacere di salire un itinerario inesplorato è troppo grande, e qui in Nepal di montagne vergini c'è solo l'imbarazzo della scelta.

Dalla cima del Nireka, in quei pochi attimi di gelo e vento, avevamo scorso un' altra cima che ci attira molto: il Chumbu, 6.870m. Si trova nella valle dietro al Chakung, rivolto verso il suo versante S, un ulteriore giorno di cammino più lontano. Decidiamo di partire. I nostri portatori Ram e Domi ci aiutano per 5 ore a portare i sacchi. Il terreno e' dapprima un sentiero, poi un impervio e largo ghiacciaio nero, sepolto dai sassi, che ci separa dalla valle che conduce al Chumbu.

All'una del pomeriggio Ram e Domi devono tornare al villaggio. D'ora in poi ci siamo solo noi e gli zaini.

L'avvicinamento si mostra più lungo ed accidentato del previsto, con dune di ghiaccio e sassi, morene, colline erbose. Ci vorrà ancora un giorno di cammino per arrivare al campo base, e quando ci sembrerà di essere alla base della parete, mancheranno ancora 3 ore di marcia. Gli spazi in Himalaya sono infiniti, tutto sembra più piccolo di quel che è nonostante tutto sembri già molto grande. E' uno strano gioco di parole ma e' così.

Siamo già molto stanchi, gli zaini pesantissimi su questo tipo di terreno ci massacrano. A metà pomeriggio montiamo la nostra mini tendina Black Diamond e ci organizziamo prima per la cena e poi per la salita che avrà inizio il giorno successivo. Forti delle nostre capacità e delle nostre precedenti esperienze alpine e himalayane, predisponiamo questo piano: C1 all'evidente colle alla base dello sperone più ripido, "tanto aspettiamo il Sole che in 3 h max siamo su". Poi "dormiamo, il giorno dopo saliamo in vetta e scendiamo a C1, e poi si torna a Gokyo a mangiare bistecche e patate". Lo sperone di roccia e ghiaccio fa 1.400m di dislivello circa. Dovremmo farcela.

Cerchiamo di alleggerirci al massimo anche con l'attrezzatura per la progressione. Portiamo infatti una corda gemella, un cordino in dyneema da 5,5mm per le doppie, 4 viti da ghiaccio, 4 friends, 4 chiodi da roccia e pochi dadi, tendina, sacco a pelo e cibo per tre giorni.

Si parte. Ma solo arrivare alla crepaccia terminale diventa un'impresa massacrante: lo sprofondare nella neve con gli zaini pesanti ci stanca moltissimo, e siamo solo a 5400m. Come il terreno si fa più ripido, ogni passo diventa un inferno. Eppure siamo su un terreno sul quale nelle Alpi normalmente corriamo!!! Ma non siamo nelle Alpi e rispetto alle vie che abbiamo salito in Nepal l'anno scorso, benché molto dure tecnicamente, ci sentiamo spiazzati, affaticati.

Proseguiamo lenti e il terreno si fa sempre più ripido e complesso. Entriamo in una zona di seracchi che bisogna per forza oltrepassare per avere accesso alla cresta e così poter piazzare "forse" il nostro primo campo. Nik mi raggiunge in sosta dopo un tiro ripido. Anche lui è stanco e forse un po' sconfortato. Io riparto per il tiro successivo e aggiro uno

spigolo di ghiaccio che fino a quel momento ci celava la vista verso la cresta.

Nik mi urla: "Com'è li dietro? Dovremmo quasi esserci, no?". Non so cosa rispondergli. O lo rassicurarlo inutilmente o gli dico la verità. Scelgo la seconda. "Ci sono ancora 4 tiri di cui uno a 90 gradi su seracco". Mi guarda come se fossi matto, poi lo incito a salire dicendogli che ho adocchiato un buon posto per passare la notte, sotto un salto di roccia, al riparo.

Abbiamo ancora un'ora e mezza di luce per quattro tiri di corda non facili. In questo punto la parete è articolata: seracchi, canali di neve, crepacci, muri di roccia e ghiaccio. Attacco io il muro a 90 gradi. Già è faticoso a bassa quota, ma qui siamo prossimi ai 6.000mt. In un movimento brusco saltano via i paletti della tenda e ancora una volta ci guardiamo sconsolati. Ma il sito del bivacco sembra davvero ottimo e decidiamo di continuare.

L'uscita dal tiro ripido e' di neve inconsistente al 100%. Esco dal tiro ma sono esausto. Il terreno si appiattisce di colpo e la neve è profonda. Non posso fare sosta per recuperare Nik. Decido allora di scendere in un crepaccio e lo assicuro in vita facendo da contrappeso. Sono sfinito. Lo vedo sbucare dal ripido e raggiungermi. Gli chiedo il cambio in testa alla cordata per gli ultimi metri prima del bivacco. Mancano 40 metri ma sono 40 lunghissimi metri a 70 gradi di neve-zucchero, dove non è possibile proteggerci. Sotto di lui solo il crepaccio nel quale mi sono infilato per assicurarlo, poi il salto dei seracchi.

Finalmente, alle ultime luci, Nik sbuca sul terrazzo e mi recupera. Il posto è effettivamente comodo per la notte, anzi, super lusso per essere in piena parete. Ma siamo demoliti e passiamo più di un'ora a cercare di montare la tenda senza paletti, agganciandola in ogni possibile dove. Beviamo qualcosa e crolliamo nel sonno. Siamo a 6.000 e stiamo benissimo, niente mal di testa, nessun sintomo di mal di montagna, solo grande stanchezza fisica.

Il giorno successivo decidiamo di acclimatarci ulteriormente e di riposarci, e di dare spazio solo ad una piccola ricognizione poco oltre. Attacco il primo tiro dopo la cengia, un diedro di misto delicato che deve condurre in cresta. Faccio 10 metri, poi un po' confusamente costruisco una sosta e dico a Nik di calarmi. C'è qualcosa che non va.

Eppure sto bene, non ho mal di testa, non ho nausea... non capisco cosa stia succedendo. La testa mi gira e la vista è appannata. La vetta mi sembra all'improvviso lontanissima e lo sperone insormontabile.

Torno sul terrazzo da Nik e ne discutiamo. Provo a sedermi e a mangiare qualcosa. Sposto il sacco a pelo, provo a prendere un pezzo di cioccolato e la testa gira ancora, forse un po' più che in precedenza. Sono ancora lucido, sento che non può essere nulla di grave perché non ne ho i sintomi, ma tutt'a un tratto mi sento davvero sperso nel nulla, lontano da tutto e da tutti.

Non è come da noi che basta una telefonata e pochi minuti dopo arriva l'elicottero che ci porta a valle o all'ospedale. In questi momenti, in questi luoghi più che mai, ognuno deve avere la lucidità di chiedersi se vale la pena rischiare la propria pelle per una vetta, per un premio, per farsi bello con gli amici, oppure se sia più importante tornare a valle e garantire così anche la sicurezza del compagno.

Eh sì, perché l'alpinismo, per quanto sia un'attività "da egocentrici", e' in realtà un gran gioco di squadra e in questi posti, lontani e remoti, lo è ancora di più. La cordata qui assume un significato fortissimo di legame tra persone, e ci fa capire che non ci si può legare con chiunque per fare certe salite, se non con un amico. Se il significato che diamo al successo di una salita è l'acquisizione di nuova esperienza per poter farne tesoro in futuro, allora il poter contare sul supporto del compagno è importantissimo. Io non ho esitato un attimo a dire a Nik che preferivo scendere perché non stavo bene, sapendo di poter contare sulla sua comprensione e sulla sua valutazione obiettiva della situazione. Era chiaro che anche con un giorno di riposo non saremmo arrivati in vetta, che eravamo troppo stanchi, e che il mio stato di salute poteva potenzialmente aggravarsi molto. In tal modo siamo scesi in totale sicurezza e abbiamo raggiunto il villaggio il giorno dopo. Io sto meglio, ma siamo entrambi prosciugati di ogni forza.

Ma allora dove abbiamo sbagliato? Cosa c'era di diverso dalle salite che abbiamo effettuato l'anno scorso?

Il trittico di vie realizzato precedentemente era fatto di salite che raggiungono una quota massima di 6.000mt, molto dure tecnicamente ma che hanno un avvicinamento relativamente breve. Nonostante allora avessimo sacchi pesanti perché erano previsti bivacchi in parete,

si procedeva sempre a tiri di corda e di conseguenza si aveva una buona possibilità di riposo dopo ogni tiro. E ancora, sui tiri più duri il sacco veniva issato in modo tale che il primo di cordata (e a volte anche il secondo) potesse arrampicare scarico. Inoltre abbiamo sceso tutte le vie in corda doppia.

L'obbiettivo di quest'anno era invece una montagna di 7.000mt che, benché dura, richiedeva lunghi tratti di arrampicata in conserva. Quindi poche possibilità di riposo e progressione su terreno dove il sacco non poteva essere issato. Di conseguenza arrampicavamo sempre, anche sui tiri più difficili, con uno zaino pesantissimo. Se a questo aggiungiamo che in alcuni tratti la neve era molto profonda, questo fa capire perché ci siamo ritrovati fortemente provati in "soli" 600 mt di parete.

Ma in realtà questa è solo una piccola parte di ciò che ci ha sfiniti. Questa era una via dura ma assolutamente alla nostra portata, da un punto di vista tecnico. Il problema e' stato, a nostro parere, la strategia errata ad averci logorato poco a poco. Se si parte per un obbiettivo così alto ed impegnativo, bisogna ottimizzare le energie durante tutto il periodo di acclimatamento e di spostamento, rimanendo concentrati sull'obiettivo finale.

Non si può pensare di portare un cliente al seguito per fare una salita di acclimatamento che sarà sicuramente un compromesso, e non l'ideale per raggiungere il proprio obiettivo. In questo modo infatti ci si stanca, ci si logora e non ci si prepara in modo adeguato. Non si può neppure girare mezzo Khumbu alla ricerca di buone condizioni e poi, una volta trovate, partire in totale autonomia per affrontare una salita come quella che avevamo in mente, senza avere almeno un campo base attrezzato dove riposare adeguatamente. Noi al campo base siamo già arrivati stanchi.

Per affrontare una salita così impegnativa è assolutamente necessario nutrirsi bene, riposare bene e ottimizzare le energie. Se fossimo andati direttamente al campo base e ci fossimo acclimatati su montagne limitrofe, ed avessimo avuto un campo base attrezzato per riposare "bene", avremmo probabilmente portato a termine la nostra salita...

Ma e' stata una scelta la nostra, di essere autonomi fin dal villaggio, o quasi.

In Himalaya ci siamo resi conto che non bastano le capacità tecniche e l'esperienza acquisita nelle Alpi, anche per i "non 8.000". E' un gioco tutto nuovo da imparare, dove contano molto l'esperienza locale e la strategia. Questo nostro non raggiungere la vetta ci ha portato grande esperienza della quale faremo tesoro per le spedizioni future.

Bisogna forse giungere ad un compromesso, che non vada però ad intaccare lo stile con il quale si compie una salita?! Forse l'avere qualcuno che aiuta a portare il materiale fino alla base è accettabile in questi Paesi?! Alla fine non siamo macchine né trattori, alla fine è il lavoro della gente locale aiutare il "turista" a portare il materiale lungo questi spazi infiniti. Certo, l'autonomia totale darebbe un'importanza e uno spessore diversi alla salita.... ma allora non dovremmo prendere neanche l'aereo fino a Lukla?!?!?!?!?!

E' difficile giungere ad una conclusione, forse non esiste. Noi ci siamo resi conto che per salite di un certo livello ad una certa quota e in posti remoti come gli angoli dell'Himalaya, l'autonomia totale è veramente impegnativa, forse fuori dalla nostra portata, ma ci rifletteremo ancora. L'unico punto fermo e' lo stile con il quale affrontare una salita: lo stile alpino per quanto possibile. Per raggiungere la vetta o si è in grado di farcela da soli o si torna a casa, non ci sono compromessi etici o commerciali".

Enrico Bonino e Nicolas Meli ringraziano tutti coloro che hanno reso possibile quest'avventura: gli sponsor Scarpa e Black Diamond, il Comune di Aosta, i tanti amici e sostenitori che hanno condiviso ogni attimo della spedizione e hanno espresso vicinanza con i loro messaggi. Anche a loro saranno dedicate le serate che si svolgeranno nelle prossime settimane tra Piemonte e Val d'Aosta e che racconteranno tutti i risvolti di questa spedizione.

I PROTAGONISTI

Enrico Bonino – 29 anni, Guida Alpina della Valle d'Aosta, residente a Villeneuve. Negli ultimi 13 anni la sua intensa attività spazia tra Alpi occidentali e orientali, con una predilezione per l'alta montagna e la ricerca degli ambienti più isolati anche all'estero: tra Madagascar e Stati Uniti, tra Thailandia, Nepal e India. Nel 2005 e 2006 partecipa alla formazione di giovani Afgani (in Afghanistan, nelle regioni del Panshir e Wakhan) alla professione di portatori d'alta quota e guide di trekking, sotto il patrocinio dell'associazione ambientalista Mountain Wilderness. Nel 2009 vive tra le montagne del Nepal per 3 mesi, condividendo salite con clienti e soci abituali, con i quali ricerca angoli selvaggi, nascosti tra le montagne del turismo.

Nicolas Meli – 31 anni, Guida Alpina della Valle d'Aosta, residente a Sarre. Tra la roccia e il ghiaccio, in montagna sale vie importanti nel massiccio del Monte Bianco e del Monte Rosa. Con i clienti ama scoprire itinerari meno conosciuti e percorsi, ricercando il piacere dell'avventura. Ha già avuto modo di esplorare la regione dell'Himalaya con Enrico Bonino, con il quale ha condiviso l'apertura di tre vie su pareti difficili e inesplorate. Ha definito la nuova spedizione come "il primo passo verso i giganti dell'Himalaya".